I diari di Wittgenstein tornano finalmente alla luce.
«In queste pagine private scopriamo un Wittgenstein intimo, tormentato dall’amore per una donna e da una tensione spirituale vertiginosa» – Il giornale
I diari di Wittgenstein, scritti per metà a Cambridge fra il 1930 e il 1932, per l’altra metà a Skjolden, in Norvegia, fra 1936 e il 1937, fanno parte di un unico quaderno venuto alla luce solo nel 1996.
La prima parte coincide col ritorno di Wittgenstein alla filosofia, una sorta di riavvìo del suo pensiero immerso fra i referenti concreti della vita quotidiana. Le domande sul senso, la fatica e il tormento del filosofare, si affiancano a considerazioni esplicite sui personaggi che costellano la sua esistenza: Ramsey, Moore, Keynes, Bachtin, Loos (ma anche Freud, Kraus, Spengler); gli amici (Hänsel, Francis Skinner ecc.) e i familiari. Senza contare il confronto con la musica e i musicisti dell’epoca; le divagazioni sul cinema americano, persino sullo sport.
Il secondo periodo dei diari è invece quello della solitudine norvegese (nella baita in cui redasse la prima versione delle Ricerche filosofiche); qui gli interrogativi di natura “morale” (spesso al limite dell’autoflagellazione), sfociano di continuo in questioni specificamente “religiose”, concernenti la “fede”, il significato della Bibbia ecc.; e tutto questo si riflette, sul piano formale, nell’inserto di passi, a volte anche lunghi, scritti in codice (un curioso dispositivo di intensificazione dell’espressione).
Al di là dell’unicità di “genere” del testo (si tratta dell’unico diario “tradizionale” conservato di Wittgenstein), e delle informazioni inedite in esso depositate per i biografi, esso costituisce in primo luogo un ambito eccezionalmente consono al potenziale espressivo dell’autore. Soprattutto in questo senso si tratta di un unicum: la scrittura per aforismi si sente meno che mai debitrice verso la necessità del filosoficamente compiuto, del sistematico – dell’opera; aderisce in pieno, come deve, alle tonalità emotive che orientano momento per momento la vita di ognuno, e porta questo diario, come scrive Michele Ranchetti, a iscriversi nella «tradizione delle memorie d’anima della cultura tedesca, non strutturate per argomenti ma lasciate libere di corrispondere alla necessità di non perdere mai il rapporto del singolo con se stesso». Rapporto che è quello del pensiero con se stesso, di un pensiero che si rivela in grado di esprimersi, qui, con rara eloquenza quanto ai suoi più intimi “movimenti”.