«Giunse l’amore e colmò loro il calice di vino. Quand’ebbero colto la rosa profumata dell’amore, vollero assaporare il suo profumo ogni giorno: l’uno rapito dalla bellezza dell’altro, il cuore stordito e pur senza perdere i sensi, perdutamente innamorati in uno struggimento che mai si estingueva». I due amanti che così si incontrano sono Leyla e Majnun: hanno dieci anni, vanno insieme a scuola. Leyla è «una luna, una bambola, un tenero svettante cipresso»; Majnun ha «labbra di rubino che spargevano perle». Insieme, formano la coppia archetipica dell’amore estremo, della passione sino alla follia, che traversa gloriosamente la storia dell’Oriente islamico nell’immaginazione di tutti, dotti e incolti, un po’ come da noi la storia di Romeo e Giulietta. Come nel loro caso, l’amore di Leyla e Majnun è avversato dal mondo, che lo vuole distruggere con ogni mezzo. Ma non ci riuscirà, perché «amore è quello che non ha fine». Così la separazione e l’assenza si trasformano in possenti catapulte della passione. Majnun, il «Folle d’amore», vaga giorno e notte cantando versi, le spine del deserto lacerano i lembi di lino e seta delle sue vesti, ma l’occhio della sua mente è fisso sempre sullo stesso fuoco. Il suo delirio amoroso lo spinge a un moto perenne, «come un’azzurra veste di lutto che galleggia nelle acque di un fiume profondo». La società degli uomini gli è invisa, mentre le fiere gli si accovacciano intorno. A specchio del suo vagare, Leyla rimane al centro del giardino, insieme prigioniera ed esule, «colma di grazia e di fascino». Ma «nell’intimo il cuore le sanguinava», il pensiero è fisso sull’amato inavvicinabile, mentre la circondano tanti «miseri cuori che a migliaia erano precipitati nel pozzo della fossetta del suo mento». Né la guerra né un matrimonio forzato valgono a soffocare l’ardore dei due amanti, pur costretti a essere «appagati di fantasmi e fantasmi essi stessi». I numerosi episodi che scandiscono la loro vicenda servono a Nezami per tessere un sontuoso manto di immagini, dove «simbolismo sufi, e anche gnome e pura fiaba rimangono fra loro in continuità, senza che possa dirsi che un aspetto prevalga nitidamente sull’altro». Chi legge questo libro non può che rimanere abbagliato innanzitutto dalle immagini, per la profusione e la sottigliezza delle figure, per lo smalto dei dettagli, per la febbre lirica che li anima. Sono queste immagini a formare il «velo» dell’opera, come l’amore di Majnun, nel suo eccesso rigoglioso, serve a proteggere quel «frammento di paradiso» che è Leyla. E lo scrittore Nezami potrebbe pronunciare le stesse parole dell’amante: «È meglio che l’essenza rimanga celata e che solo l’involucro appaia, meglio che dell’amata io sia il velo, che della perla io sia la conchiglia!».
Leyla e Majnun fu composto nel 1188 ed è uno dei Cinque Tesori di Nezami (1141-1204), romanzi in versi di varia lunghezza che costituiscono il centro della sua opera e una delle più alte manifestazioni della letteratura persiana. Innumerevoli altre versioni della storia di Leyla e Majnun, la più popolare storia d’amore di tutto l’Oriente musulmano, si sono susseguite nei secoli, in arabo, turco, persiano, urdu, ecc. Nessuna raggiunge il fulgore della versione di Nezami, considerato da molti «il più grande narratore, e forse, non è esagerato dirlo, il più grande poeta» (A. Bausani) della letteratura persiana. La presente edizione, a cura di Giovanna Calasso, che insegna Storia della civiltà arabo-islamica all’Università di Roma, è in certo modo la prima traduzione di Leyla e Majnun in Occidente, dove questo testo era finora conosciuto attraverso edizioni come quella di Gelpke, che sono piuttosto delle parafrasi.